Gioacchino Murat, "l'onore e le donne". Parte I
Un brillante e ribelle figlio di locandieri scopre la carriera delle armi. E il destino lo premia con gli incontri giusti al momento giusto..
La Bastide, Occitania, 25 marzo 1767. Pierre Murat e sua moglie Jeanne, gestori di una stazione di posta con annessa locanda, danno alla luce un bambino, sesto di cinque tra fratelli e sorelle. Lo chiamano Gioacchino, in onore del suo padrino. La famiglia, né ricca né povera, decide che suo futuro sarà la carriera ecclesiastica. A dieci anni, anche con l’aiuto della potentissima famiglia Talleyrand (il padre di Gioacchino amministra alcuni terreni che i Talleyrand posseggono in zona), entra al collegio di Saint-Michel a Cahors grazie a una borsa di studio.
È un ragazzino sveglio, studia con profitto e viene ammesso al seminario arcivescovile dei lazzariti di Tolosa, dove entra nel coro. I giochi sembrano fatti. Ma il suo carattere non è fatto per la vita clericale. Ha due difetti non da poco per un uomo di chiesa: una marcata tendenza all’insubordinazione e un ancor più spiccato amore per la bella vita e le donne. È proprio a causa di una ragazza che a vent’anni lascia il seminario. Si batte persino a duello per lei, ritrovandosi molto presto totalmente privo dei pochi denari che possedeva. Lei lo pianta. Gioacchino si ritrova solo, senza soldi e senza prospettive. Non ha praticamente nulla di materiale, però possiede un po’ di cultura, una certa eleganza di scrittura e di modi, e tanto coraggio. Elementi che in quei tempi da nulla possono diventare tutto. “Non sarò nato per essere un uomo di chiesa, ma posso farmi valere come uomo d’armi” si dice con la speranza della gioventù. A Tolosa s’imbatte nel corpo dei cacciatori a cavallo dello Champagne.
Si fa avanti. Il comandante della compagnia, il capitano Neil, è colpito da quel giovane alto, sbarbato, occhi scuri e capelli nerissimi, l’aria spavalda di chi sente di interpretare lo spirito del tempo. Decide di dargli una possibilità.
La sede dei cacciatori a cavallo dello Champagne
L’indomani la compagnia riprende la marcia con un cavalleggero in più. Capisce presto di avere fatto la scelta giusta: sono pochi i subalterni con la sua istruzione, e presto diventa sergente maggiore. Il reggimento è distaccato in Alsazia e lì torna a bussare forte il suo odio per la gerarchia. Viene rispedito a La Bastide per insubordinazione, finendo a fare il commesso in un negozio di stoffe e il cameriere in un ristorante.
È un momento decisivo per la sua crescita personale. A 23 anni ha già vissuto varie vite, e capisce che se vuole ottenere qualcosa nella vita deve ridimensionare la sua intemperanza. Attorno a lui, intanto, il contesto si fa rovente. Nel 1789 in Francia accadono eventi di una certa rilevanza. La Rivoluzione coglie Gioacchino nel miglior momento possibile. Intuisce che è il momento di darsi da fare, e organizza la Guardia nazionale del suo distretto. In breve, le Guardie nazionali di quella zona dell’Occitana sono sotto il controllo di Gioacchino, che formalmente non è congedato, ma solo in licenza speciale dal suo reggimento. Fatta la Rivoluzione, è tempo di festeggiare. Gioacchino non bada a spese per rifornire di cibo e viveri i suoi uomini, e anche per questo viene richiamato al reggimento, di stanza a Sélestat, poco a sud di Strasburgo.
Nonostante le apparenze serpeggia molta ambiguità nell’esercito. Ci sono ancora molti ufficiali fedeli al re, come il marchese de Bouille, a capo proprio dei cavalleggeri. E sottufficiali, come Gioacchino, che pur avendo sincera simpatia per la causa rivoluzionaria, sono obbligati a fare anche qualche calcolo personali a cui subordinare la loro cui fedeltà. Per entrambe le categorie c’è in gioco qualcosa: per i primi, aristocratici, il mantenimento dei privilegi pluri secolari; per i secondi, borghesi, l’agognata ascesa sociale.
Nel giugno del 1791 le truppe del distretto orientale, sotto il comando di de Bouille, sono dislocate lungo le strade da e verso Parigi. Ufficialmente, per scortare un convoglio carico d’oro. Ma la realtà è ben diversa: lungo quella strada sta viaggiando una carrozza con a bordo Luigi XVI e Maria Antonietta. I reali cercano di fuggire dalla Francia. De Bouille ha dato disposizioni troppo vaghe e il distaccamento non intercetta la carrozza. Nella confusione, arriva un dispaccio: il re e la regina sono stati arrestati a Varennes e da lì riportati a Parigi. Nominalmente Luigi XVI è un monarca costituzionale. Di fatto, è agli arresti domiciliari.
Le autorità parigine sono in fermento. I cavalleggeri si sono limitati a eseguire gli ordini del loro comandante diretto, e de Bouille stesso è in fuga dal paese.
Il colonnello Joseph François Urre de Molans, comandante del reggimento e aristocratico purosangue, invia due uomini a Montmédy, con l’ordine di verificare lo stato del distaccamento e se lo stesso possa ricongiungersi al reggimento. Quei due uomini sono il suo aiutante personale e il sergente maggiore Gioacchino Murat. È il primo incarico di una certa rilevanza per Gioacchino, che l’8 febbraio 1792 è scelto come membro della Guardia costituzionale di Luigi XVI. È un corpo di finzione: ufficialmente dovrebbe essere la milizia personale del re, in realtà il suo unico compito è sorvegliarlo ed evitare una sua fuga.
Il 4 marzo Gioacchino manca a un appello in caserma e viene messo agli arresti. Invece che scontare la punizione decide di dimettersi. Lo fa con un colpo di teatro. Nella lettera di dimissioni rivela che l'assenza non è stata causa di un contrattempo, ma delle pressioni ricevute da alcuni ufficiali che volevano tirarlo coinvolgerlo in una milizia di disertori realisti con base a Coblenza. Gli avevano offerto persino quaranta franchi d’oro. La sua denuncia porterà alla dismissione dell’intero reggimento. Ha fiutato l’aria: la Guardia è fedele al re, e lui ha ormai definitivamente capito che il cavallo vincente è la Rivoluzione. Viene quindi rispedito al suo primo corpo, ribattezzato il 12°cacciatori a cavallo.
Torna come soldato semplice, ma è solo pro forma. Diventa caporale a fine aprile, sergente maggiore di reggimento il 5 maggio, sottotenente il 15 ottobre e infine tenente il 31 dello stesso mese. In una lettera indirizzata al fratello Pierre, nell’autunno del 1792 scrive:
“Ho presentato un memoriale al Ministro. Attendo ora la risposta da un generale che sta per prenderne il posto. Se ciò accade mi reputerò un uomo fortunato. Sono tenente, e se il mio colonnello viene promosso generale, cosa di cui non dubito, diverrò suo aiutante di campo e capitano. Alla mia età e col coraggio e le capacità militari che mi ritrovo, posso ancora avanzare di grado. Intendo farmi strada se Dio e le pallottole me lo consentiranno”
Pierre muore in quel periodo, lasciando moglie incinta e tre figli. Gioacchino si farà carico del mantenimento della sua famiglia. Il suo reggimento viene impiegato in Belgio, ma lui e la sua unità non prendono parte ai combattimenti, venendo impiegati ad Artois in compiti di presidio e di ripristino delle linee di comunicazione. Una rogna per un un tipo ambizioso come lui, peraltro ormai ventiseienne. Ma nel gennaio inizi del 1793 il re viene ghigliottinato. Il 25 febbraio Gioacchino, tornato a Parigi, scrive due lettere, una indirizzata alle autorità di La Bastide e l'altra al fratello André. In quest'ultima dice:
«Dovrò lasciare Parigi entro dieci giorni e partire per l'Olanda per assumere l'incarico di aiutante di campo del generale. Ho un cavallo che mi è costato ben sessanta luigi e devo acquistarne un altro; sono carissimi».
La dipartita di Luigi XVI
Consiglia anche al fratello di suggerire ai coscritti locali di venire ad Arras, dove lui li avrebbe fatti entrare in cavalleria, ricordando come egli stesso avesse ottenuto, grazie al fratello del curato di La Bastide, la promozione a sergente furiere nella propria compagnia.
Le cose però si mettono male per gli eserciti rivoluzionari. Austria, Spagna e Inghilterra premono sui confini della neonata Repubblica. A Parigi è il panico. Vengono conferiti nuovi poteri ai comitati rivoluzionari delle varie città per tenere l’ordine e sventare tentativi eversivi contro la Repubblica. Il generale Dumouriez, comandante del corpo di Gioacchino, passa agli austriaci con tutto il suo stato maggiore. Viene rimpiazzato dal generale Dampierre, che si ricorda bene di Gioacchino, conosciuto durante cene luculliane qualche tempo addietro. C’è da rifare l’intero stato maggiore del corpo di cavalleria, e Gioacchino viene promosso a capitano. In quel periodo scrive così al fratello:
“I nostri eserciti hanno abbandonato l’infame Dumouriez proprio nel momento in cui costui si è rivelato per quel che era: un emerito traditore. Dappertutto i nostri soldati repubblicani danno prova di coraggio nel combattere questi infami tirapiedi dei tiranni”
Traditori a parte, il momento rimane difficile per le armate francesi. L’esercito inglese, sotto il comando del duca di York, ha assediato Dunkerque. La situazione è critica, e non c’è solo bisogno di valore, ma anche e soprattutto di organizzazione. Non basta riorganizzare gli eserciti, ma crearne di nuovi. Come un corpo di cavalleria di pronto intervento, gli “ussari bracconieri”. Per questa nuova unità serve un comandante giovane, ambizioso ed energico. Serve Gioacchino. Nella primavera del 1793 viene promosso maggiore nel 21°cacciatori a cavallo, sotto il comando del colonnello Landrieux. Tra quest’ultimo e Gioacchino sorgono subito notevoli contrasti. Landrieux è molto avido. Spesso la cassa del reggimento viene alleggerita per i suoi comodi, e Gioacchino, che ha tutto l’interesse a fare di quell’accozzaglia di disperati il fiore all’occhiello della cavalleria europea, non può accettarlo.
Litigano furiosamente, Landrieux accusa Gioacchino di slealtà verso la Repubblica, mettendo giro la voce che sia un aristocratico. Gioacchino si fa due risate. Non era mai stato così felice di avere un padre contadino e locandiere. Il suo certificato di nascita a riguardo non mente. L’inchiesta viene archiviata.
Intanto, a Parigi infuria il Terrore. Le esecuzioni si sprecano. Nessuno può ritenere la sua testa al sicuro dalla lama della ghigliottina. Landrieux ci riprova, accusando Gioacchino di essere un simpatizzante di Marat, cosa stavolta verissima. Ma anche stavolta, niente da fare. Messo agli arresti, giovane capitano è troppo intelligente per farsi risucchiare nel fango e riesce a difendersi con grande abilità, riuscendo non solo a farsi scagionare, ma anche a gettare pesanti ombre sul suo accusatore.
Morte di Marat, di Jean Louis David
Intanto, la Francia versa nel caos. I partiti si scannano, non solo verbalmente. Viene costituito il Direttorio. Gioacchino e i suoi sono a disposizione dell’esecutivo, guidato da Paul Barras. C’è solo un risultato a cui mirare. La completa repressione della rivolta.
È la mezzanotte del 4 ottobre 1795. Uno di quei momenti dove la Storia si diverte a sparigliare le carte, a regalare opportunità e rimpianti. Barras ha affidato la difesa di Parigi a un giovane generale in rampa di lancio. Due anni prima aveva preso Tolone, restituendola al governo repubblicano. Ha 27 anni, e si chiama Napoleone Bonaparte. È piuttosto teso. Parigi è sconvolta: i realisti si suppone siano decine di migliaia, e potrebbero perforare le pur organizzate difese della Convenzione. La tecnologia può fare tutta la differenza del mondo. A Neuilly-sur-Seine ci sono quaranta cannoni della Guardia nazionale, che si è schierata contro il Direttorio. Chi arriva prima a quei cannoni, avrà, con ogni probabilità, la vittoria in pugno.
Napoleone si rivolge a Murat. È più giovane di lui di due anni. E mai come in quell’istante la sua carriera, la sua stessa vita, è dipesa dall’aitante ufficiale di cavalleria.
«Vai prendere quei cannoni. Ne va della Francia”.
Gioacchino parte a spron battuto alla testa di uno squadrone di 260 uomini. Arrivato al deposito, si trova puntati i fucili della Guardia. È uno di quei momenti nei quali il carisma o salva la vita o la affossa. Gioacchino tuona, muovendosi a cavallo tra i fucili puntati dei due gruppi. Minaccia di fare a pezzi tutti. E ricordando che che di dovere, una volta risolta la faccenda, si sarebbe ricordato dell’aiuto della Guardia in quel momento decisivo. La missione riesce, senza alcun spargimento di sangue. I quaranta cannoni arrivano nelle mani di Napoleone, che sa perfettamente dove piazzarli.
Alle 5 del mattino le truppe di Bonaparte respingono un primo attacco delle forze realiste, ma tutti sanno che solo l’inizio del ballo. Alle 10 i realisti si giocano il tutto per tutto. Sono oltre 7000, e sanno che è la loro ultima possibilità. Inizia lo scontro. Anche il cavallo di Napoleone viene colpito, ma il generale si salva e i suoi cannoni iniziano a fare fuoco. Dopo un paio d’ore la folla realista, falciata dalle ripetute raffiche, inizia a non avanzare più. È il momento di chiudere la faccenda. Napoleone ordina a Gioacchino di contrattaccare. Il suo squadrone attacca a spron battuto, le sciabole pronte ad infilzare ogni sventurato non abbastanza veloce.
Le truppe del generale Bonaparte intente a reprimere l’insurrezione
La battaglia finisce nel pomeriggio. Le strade di Parigi sono tinte del sangue di centinaia di realisti.
La Francia sanciva così la fine della sua Rivoluzione. Aprendo la strada al suo Impero.