Comprendere le origini che determinano l’odio tra due collettività è faccenda al contempo impossibile e semplicissima. Si può partire delineando tre fattori, la cui intensità varia a seconda del tempo e del contesto in cui si vive. La diversità è la prima cosa visibile: ogni immigrato parla una lingua diversa, ha sempre costumi differenti e spesso crede in un’altra religione. La diversità spesso porta a una sensazione di minaccia: non è certo immotivato vedere in popolazioni allogene un pericolo per la propria sicurezza e per la propria identità culturale. Questo si compenetra con il terzo fattore: la competizione per lo stesso numero di risorse poste in un determinato luogo.
Questo mix esplosivo, sempre più d’attualità alle latitudini occidentali, è alla base di uno scontro etnico che logora l’umanità da oltre 100 anni: il conflitto israelo-palestinese.
Il protagonista della puntata di oggi è perfettamente esplicativo del modo di pensare e di agire di una fazione, quella israeliana, che negli anni in cui visse il nostro protagonista stava compiendo la fase pionieristica della creazione di una nuova nazione. Uno spirito che che non poteva non entrare in conflitto con le comunità autoctone. Queste righe non hanno certo la pretesa di spiegare il drammatico scontro iniziato in quegli anni e tristemente intensificatosi in tempi recenti. La loro ambizione è solo essere una proposta di riflessione sulle basi storiche dei meccanismi mentali dei quali sono tuttora vittime le comunità palestinesi e israeliane.
Il 21 novembre 1880, in Russia, a Pyatigorsk, nel Caucaso Settentrionale, viene alla luce Iosif Vladimirovich Trumpeldor. Nasce in una famiglia particolare: sono ebrei, e suo padre, Wulf, è un cantonista. I cantonisti inizialmente erano i figli minorenni dei coscritti dell’esercito russo. Venivano allevati in scuole appositamente dedicate per formarli in vista dell’ingresso sotto le armi. La condizione venne poi estesa alle minoranze, come zingari, polacchi, sette religiose come i Vecchi Credenti, e, per l’appunto, agli ebrei.
Due cantonisti
Le scuole cantonali hanno un certo impatto sulla società: molti ragazzini appartenenti alle minoranze non parlano nemmeno russo prima di entrare in quei collegi. Ne escono pronti a morire per lo zar e per la Russia. La famiglia Trumpeldor, pur essendo fiera delle proprie origini, si considera innanzitutto russa. E così cresce Iosif. Lo spingono verso un futuro da dentista, ma la sua tempra lo spinge verso un destino assai più movimentato, come i tempi che il mondo (non) si sta preparando a vivere.
Il declino dell’egemonia britannica sul globo e soprattutto sui mari è iniziato. In Occidente pochi se ne rendono conto, ma, come sempre accade nella storia umana, la percezione del declino di un egemone scatena le rivendicazioni delle potenze minori. La Russia nel 1896 negozia con la Cina la concessione per le proprie società di notevoli spazi in Manciuria e in Corea in cambio della protezione militare verso il Giappone. Nel 1902 il Regno Unito si allea proprio con il Giappone in funzione anti russa. La Russia, dal canto suo, può contare sull’appoggio tedesco e americano. Nello stesso anno, Iosif si arruola. Viene spedito nella penisola di Liaodong. Obbiettivo: difendere ad ogni costo Port Arthur, la più importante base navale russa.
Visuale di Port Arthur
Nell’agosto del 1904 inizia l’assedio. Iosif combatte valorosamente, finché l’esplosione di uno shrapnel non gli porta via l’avambraccio sinistro. Passa oltre tre mesi in ospedale. Non si è ancora del tutto rimesso quando fa sapere di voler tornare al fronte per terminare il suo impegno con l’esercito. Gli ufficiali lo squadrano con un misto di stupore e compatimento. Lui non fa una piega: "ho ancora un altro braccio da dare alla madrepatria". Lo accontentano, e viene rispedito a Port Arthur, che sta esaurendo le risorse. A gennaio la guarnigione deve cedere all’onda giapponese. La cattura e la difesa di Port Arthur infliggerà a entrambi gli schieramenti, tra morti e feriti, oltre 90.000 uomini. Iosif viene catturato.
Nel campo di prigionia nipponico passa il suo tempo a coordinare i lavori di stampa di un giornale sul mondo ebraico, e ad organizzare lezioni di storia, geografia e letteratura. Non è certo l’unico ebreo del campo. Incontra diversi compagni di prigionia che condividono il credo sionista, un pensiero decisamente affascinante per le comunità ebraiche europee stanche della scarsa considerazione di cui godono nel continente. Solo pochi anni prima, era il 1897, a Basilea, Theodor Herzl aveva organizzato il primo congresso sionista. Un congresso dal quale nacque l’organizzazione sionista mondiale, il principale organo deputato a organizzare l’aliyah, una strategia di immigrazione e colonizzazione su piccola scala che gettò le basi per coordinare gli allora nascenti primi insediamenti israeliani in Palestina. Herzl e soci iniziano a organizzare sistematicamente qualcosa di già esistente: Rishon LeZion, con i suoi 232.410 abitanti la quarta città israeliana più popolosa, sorge sul primo sito in territorio palestinese acquistato a fini sionisti, nel 1882, per lo scopo dal ricchissimo banchiere Edmond James de Rothschild.
Circa 35.000 ebrei, dal 1881 al 1903, si trasferiscono in Palestina. Iosif e i suoi amici, nel campo di prigionia, sconfitti eppure pieni di sogni, iniziano a progettare il loro futuro come ritorno nella terra degli avi.
Tornato in Russia dopo un anno di prigionia, si trasferisce a San Pietroburgo e inizia a studiare legge, pur senza perdere d’occhio il movimento sionista. Per il valoroso comportamento in guerra riceve varie onorificenze, spicca, primo ebreo a riceverla, la Croce di San Giorgio. Nel 1911, decide di dare un concreto sviluppo ai suoi sogni. Con un gruppo di amici si trasferisce in Palestina, al tempo dominio ottomano. Raggiunge una fattoria sul lago di Tiberiade. Si tratta di Degania Alef, ovvero fiordaliso 1, il capostipite dei kibbutz, le fattorie ispirate a una gestione di socialismo agricolo che tanto impulso diedero alla coesione delle comunità israeliane.
Sono tempi letteralmente pionieristici, carichi di un’elettricità che il mondo non riesce a contenere. Scoppia la prima guerra mondiale e Iosif, in quanto russo in terra ottomana, è un nemico.
Ripara in Egitto, dove insieme a Ze'ev Jabotinsky sviluppa l’idea di un’unità militare fondata sui basi etniche da inquadrare nell’esercito inglese. È la nascita del Zion Mule Corps, “i mulattieri di Sion”. Le adesioni non sono poche. L’unità è presto gonfiata da volontari provenienti anche da Stati Uniti e Canada. Arriva a contare sui 5000 uomini, che vengono inquadrati in 5 battaglioni riuniti in un’unità che prende il nome di legione ebraica.
Poster di propaganda per l’arruolamento nella legione
Il comando dell’unità viene assegnato al tenente colonnello irlandese John Henry Patterson, un protestante. I due vice comandanti sono Iosif e Jabotinsky. Trumpeldor combatte sul fronte ottomano, nella sanguinosissima battaglia di Gallipoli (no, non in Puglia, bensì in Turchia). Il fine delle marine francesi e inglesi è forzare lo stretto dei Dardanelli per occupare Costantinopoli. Ne viene fuori un disastro, e la disfatta provoca anche la caduta in disgrazia del primo lord dell’ammiragliato, Winston Churchill, agli occhi dell’opinione pubblica britannica. Iosif assieme ad viene ferito alla spalla, andando ad aumentare i 78.000 britannici feriti nell’operazione, ai quali si devono sommare i 34.000 che non sarebbero mai tornati a casa. La brigata si scioglie una volta finita la spedizione. Nel giugno 1917 Trumpeldor torna in Russia. E trova un paese molto diverso da quello che ricordava. La rivoluzione sta sovvertendo ogni ruolo e ogni credenza, e anche l’esercito, pensa Iosif, andrà in qualche modo riformato.
Propone ai comandi militari del governo provvisorio di replicare l’esperienza della legione ebraica nell’esercito russo. È assolutamente convinto che le motivazioni dei suoi commilitoni ebrei, uniti a un buon addestramento, avrebbe sfondato il fronte turco nel Caucaso, e da là fino alla Palestina, che sarebbe potuta diventare la base per una comunità etnica a trazione ebraica. Non va in porto, ma riesce a fondare un'organizzazione giovanile che prepara gli immigrati per l’aliyah, reclutandone parecchi nella comunità ebraica russa, che nel passaggio dal regime zarista a quello sovietico non ha visto un miglioramento delle condizioni generali. Parte anche lui. È il momento di realizzare il sogno di una generazione. I kibbutz si moltiplicano, le più avanzate tecniche agricole rendono fertili terre prima di allora puramente desertiche. Tutto questo, per Iosif, continua sino al primo marzo 1920.
Basilea, 1897. Il primo congresso sionista
Si trova a Kfar Giladi, un villaggio ebraico piuttosto isolato nella valle di Hula, alta Galilea, vicino al confine libanese. I confini, già 104 anni fa, da quelle parti, sono concetti estremamente soggettivi. Si sono già registrati alcuni episodi di tensione tra le énclave sioniste e i dirimpettai arabi. Che spesso, sono tribù di di contadini organizzati su una struttura clanica. La situazione in cui versano queste collettività è estremamente critica. Oltre alla convivenza generalmente pacifica ma non priva di tensioni latenti con le énclave sioniste, sono anche scossi dalla guerra contro la Francia, che talvolta usano come pretesto per saccheggiare villaggi, sia arabi che ebraici.
Riavvolgiamo un attimo il nastro. Dopo la prima guerra mondiale gli accordi Skyes-Picot, oltre a tradire il sogno di uno stato arabo indipendente (dramma ben rappresentato nella parabola di Lawrence d’Arabia), istituirono in Siria l’amministrazione militare francese, con a capo il generale Henri Gouraud. Le frange siriane insorgono, sognando uno stato arabo indipendente sotto re Faisal. I primi mesi del 1920, quindi, vedono frequenti e violenti attacchi contro le truppe francesi dislocate nella regione.
Il mondo senza le carte di Limes sarebbe decisamente un posto peggiore
A una di queste bande sciite giunge notizia che un contingente francese abbia trovato ospitalità a Tel Hai, un villaggio vicino al quello dove si trova Iosif. Raccolte alcune centinaia di uomini, vanno a sincerarsi di persona.
Gli ebrei della zona cercano di mantenersi il più possibile neutrali, ospitando occasionalmente sia gli arabi che i francesi. Quando gli arabi giungono nel villaggio, la tensione è al massimo. Un colono spara un colpo di fucile in aria. È il segnale di pericolo, e dal vicino villaggio di Kfar Giladi arriva Iosif, ormai una sorta di capoccia locale, con altri 10 uomini armati. Iosif prova a far desistere gli sciiti, spiegandoli che nel villaggio non ci sono francesi e che è meglio che tornino indietro. Dopo una tesa trattativa, a Kemal Effendi, il capo villaggio a guida della spedizione, è concesso di entrare per sincerarsi che non vi siano francesi. Kamal entra a Tel Hai, e purtroppo incontra Deborah, una colona che, spaventata di vedere un beduino armato nel villaggio, gli punta contro una pistola.
Non è chiaro chi spara per primo. Fatto sta che, dopo il primo colpo, tutti mettono mano alle armi. Infuria una sparatoria generale. A fatica, Kamal riesce a riportare la calma, spiegando che è stato tutto un equivoco e ottiene un cessate il fuoco per consentire ai suoi uomini di andarsene. Viene approvata la tregua, ma sfortunatamente un colono mezzo sordo non sente e ricomincia a sparare sugli arabi in ritirata, che riprendono le armi, sparando a più non posso. Cadono sette ebrei e cinque arabi. I beduini sono troppi, i coloni abbandonano Tel Hai, che viene saccheggiata e data alle fiamme.
Iosif viene colpito a una mano e allo stomaco. È una brutta ferita. Viene evacuato in tutta fretta verso Kfar Giladi, ma si capisce subito che è spacciato. Muore dopo qualche ora di agonia. Le sue ultime parole, pronunciate in un ebraico incerto e strozzato, entrano nella storia del popolo israeliano: «Non importa, è bello morire per il nostro paese». A onor di cronaca c’è chi sostiene che invece abbia imprecato in russo, ma poco importa. La storia è scritta, e i coloni sionisti hanno il loro primo martire, il primo eroe al quale ricondurre una memoria collettiva. Èd è un eroe estremamente rappresentativo del modo in cui il popolo israeliano vede sé stesso. Un mito tutt’altro che sepolto, al quale nei cent’anni dalla morte sono state dedicate statue, canzoni. Una città di 22.000 persone al confine libanese è persino stata chiamata Kiryat Shmona, ossia “la città degli otto”, in onore ai morti della sparatoria di Tel Hai.
Non è questa la sede per entrare nel dettaglio della complessa questione israelo-palestinese, che comunque approfondirò più avanti con personaggi di ambo le fazioni. Ma per approcciarsi all’inconscio collettivo di ogni aggregazione umana occorre conoscere le origini dei loro miti fondativi. E non stupisce che un’entità piccola, fiera, agguerrita, violenta, capace e paranoica come il popolo israeliano tragga insegnamento dalla parabola di un personaggio impavido e impulsivo come Iosif Trumpeldor, uno dei più benedetti figli di Sion.